Alle Radici del Male

Articolo di Andrea Antonioli
del 05 febbraio 2019 alle 15:47

Qui sotto Link all’articolo originale.

https://www.rivistacontrasti.it/alle-radici-del-male-calcio-giovanile/

Il calcio giovanile è un sistema oligarchico fondato sul business e sull’ignoranza.

Noi viviamo in un’implicita quanto errata pretesa, che i problemi si possano risolvere senza interrogarsi sulle cause. A volte non vogliamo farlo, spesso non ne siamo in grado, resta il fatto che quasi sempre riusciamo addirittura a confondere l’effetto con la causa. Il mondo del calcio è profondamente malato, questo lo sappiamo, sempre che con “calcio” intendiamo la stessa cosa di una trentina d’anni fa; ma anche se parlassimo di qualcosa di diverso, il quadro sarebbe comunque desolante. Attenzione, non ci riferiamo qui agli esiti nefasti della globalizzazione pallonara o ai super sceicchi, né allo sport come show o alla ammorbante retorica che lo accompagna: questi aspetti li abbiamo più volte denunciati, ma oggi dobbiamo fare un passo indietro.

Partiamo allora dall’inizio, dal modo in cui si forma un calciatore, e nel farlo saltiamo per esigenza la fase della scuola calcio – malgrado si potrebbe aprire anche qui una parentesi, ma questa è un’altra storia. All’età di 13 anni il ragazzo entra “finalmente” nell’ambito agonistico. Molti di voi sapranno come funziona: a quest’età si è ormai under 14, il primo anno dei giovanissimi tanto per intenderci; poi si diventa allievi fino ad essere juniores, ma cosa accomuna tutte queste tappe? Le categorie: provinciali, regionali, élite (per quest’ultima va fatto un discorso a parte). E qui iniziano i problemi veri e propri.

Quella del calcio agonistico giovanile, infatti, è una macchina perversa fondata sul business, con dinamiche ben più dannose – paradossalmente – di quelle professionistiche. Qui non solo il sistema è costruito in modo tale che la priorità sia il lucro, ma come se non bastasse ciò si verifica a scapito della qualità e della crescita, tanto dei ragazzi quanto del movimento in generale.

Accennavamo alle categorie, che storicamente sono sempre state due, i regionali e i provinciali (tralasciando i nazionali, a cui possono partecipare solo le società professionistiche); successivamente è stato creato – e poi “liberalizzato”- l’èlite, il campionato di maggior livello che nasce come un’estensione dei regionali (anche se non su tutto il territorio nazionale), e diviene dunque il più ambito: questo rientra in una deriva che ci porta direttamente al cuore del problema. L’obiettivo, infatti, diventa fin dai 13 anni mantenere o migliorare la categoria. Sacrosanto, direte voi: il problema è come, e perché.

Avendo a casa l’astro nascente del calcio italiano, o anche solamente un possibile professionista, dove lo si porta? Semplice, nelle categorie migliori e nelle società più note.

Partiamo dal presupposto secondo cui il calcio giovanile si inscrive in un quadro di enorme ignoranza generalizzata, e in quello che rappresenta il vero male di tanti ragazzi, ovvero i genitori convinti che il proprio figlio sia il nuovo Nesta, Pirlo, Del Piero. Questa è la premessa fondamentale, perché tutte le grane, banalmente, derivano da qui. Avendo a casa l’astro nascente del calcio italiano, o anche solamente un possibile professionista, dove lo si porta? Semplice, nelle categorie migliori e nelle società più note che, come tali, partecipano a campionati di prima fascia frequentati da osservatori, agenti, giornalisti etc.

Poco importa che il ragazzo sia il trentaduesimo nelle gerarchie, o che per portarlo agli allenamenti si debbano fare quaranta chilometri e un’ora di traffico sul raccordo anulare: l’importante è che abbia il palcoscenico – e la borsa – della Roma, della Lazio, della Vigor Perconti, del Tor Tre Teste. Forse così l’osservatore o l’agente di turno lo noterà, e tutti gli sforzi saranno ripagati (quando i maiali voleranno, come dicono gli inglesi).

Dal canto loro le società, ben consapevoli del meccanismo, sapendo che nella categoria A si ha il triplo di ragazzi iscritti rispetto alla categoria B, e che la stessa cosa avviene per la B rispetto alla C, tentano in ogni modo di mantenere o migliorare la categoria stessa. La ricompensa non è più il cammino, come direbbe Tabarez, il modo in cui migliorano i singoli ragazzi e la squadra, bensì materialmente è la vittoria.

Ed eccoci al punto nodale: come si ottiene la vittoria, soprattutto a 13-14-15 anni? Qual è il modo più veloce e più diretto per giungere al traguardo? Sviluppare un gioco con meccanismi consolidati, lavorare singolarmente sul ragazzo e globalmente sulla squadra, oppure ricorrere al fisico, al ragazzo più grosso degli altri, al sistema più redditizio nel breve termine?

“Il successo non è fatto solo dai risultati, ma anche dalle difficoltà che si superano per ottenerli, dalla lotta permanente e dallo spirito con cui si affrontano le sfide. Il cammino è la ricompensa.” (Oscar Washington Tabarez, un vero maestro di calcio)

Si giunge così al paradosso per cui un allenatore di una nota e rispettata società romana, al “suo” gruppo di sedicenni, può assicurare senza vergogna che «la cosa più importante sono le palle inattive» (testimonianza diretta). Si arriva così al punto in cui si reclutano giocatori che danno 20 centimetri a compagni ed avversari, spesso prelevati per vie discutibili, che risultano dominanti e vincono le partite da soli. Nell’età più importante per la crescita dei ragazzi non si lavora più su di loro, con i dovuti tempi e la necessaria pazienza, ma si pretende subito il bottino grosso passando per la via più breve. Con le parole di Horst Wein,

“Un tecnico che vince tutto con i giovani non ha lavorato per il futuro dei suoi allievi, ma per il proprio”.

Apparentemente sono tutti contenti (tranne i ragazzi, ma spesso neanche lo sanno): le società incassano, i genitori sognano, gli allenatori vincono – in un periodo in cui gli esoneri per mancanza di risultati sono arrivati anche nei settori giovanili, rendiamoci conto – e così il meccanismo si autoalimenta: poi però arriva il professionismo. A questo punto la società che valuta il ragazzo se ne frega di quante partita abbia vinto nelle giovanilie pretende invece un calciatore già formato; come un’azienda che, assumendo un ingegnere appena laureato, si aspetta che questo sappia fare i calcoli e non guarda certo ai voti ottenuti agli esami, così funziona per la squadra professionistica che ora sì, veramente, deve vincere subito e mantenere la categoria.

Il punto sta proprio qui: molti giocatori, anzi molti possibili giocatori, non arrivano pronti al momento del grande salto perché, sostanzialmente, non sono in grado di fare i calcoli. Non sanno dribblare come si richiede a un’ala, marcare come ci si aspetta da un difensore, spesso non sono capaci nemmeno di controllare il pallone come si pretende da un calciatore professionista. E quegli altri, i più grossi, difficilmente si confermeranno ad alti livelli: erano unicamente il cavallo di troia per entrare nelle mura della città, la carne da macello per un sistema fondato sul business e sulla vittoria.

Il caso di Joseph Minala a Roma fece molto discutere: al di là delle infinite polemiche sull’età che arrivarono anche oltreoceano, fu prelevato dalla Vigor Perconti a 16 anni risultando immarcabile e dominante, prima di approdare alla Lazio e finire in una girandola di prestiti in Serie B

Vi siete mai chiesti perché non produciamo più talenti? Perché l’ultimo effettivo talento italiano, Insigne, è cresciuto giocando per strada? Vi siete mai domandati perché abbiamo esterni offensivi che non sanno più smarcare l’uomo? O difensori centrali che non sanno più marcarlo, l’uomo? Semplice: perché non c’è più tempo, e bisogna vincere subito. Cosa succede infatti se il ragazzo a 14 anni tenta il dribbling, si fa rubare il pallone e gli avversari segnano su contropiede? O se il centrocampista tenta uno stop a seguire per cui invece perde il possesso, lasciando sguarnita la difesa?

Questi sono aspetti che come tanti altri si devono allenare, per i quali serve tanta pazienza: quel ragazzo sbaglierà dieci, venti, trenta dribbling prima di imparare come e quando farli; quell’altro controllerà male la palla cento volte prima di imparare a stopparla orientata come Iniesta. Ma vi chiedo, se Iniesta fosse cresciuto in uno dei nostri settori giovanili e non nel Barcellona – in cui fin dagli otto anni ti insegnano a giocare in quel modo, fregandosene bellamente dei risultati -, sarebbe diventato Iniesta?

“Non voglio essere un falso umile, ma non ho inventato niente di questo tiki taka. Non dobbiamo dimenticare che le due volte che abbiamo vinto la Coppa dei Campioni lo abbiamo fatto con 7-8 giocatori del settore giovanile: questi giocatori come Xavi, Iniesta, Puyol, Victor Valdes, sono entrati nell’Accademia del Barcellona quando avevano 8-9-10 anni, sono arrivati in prima squadra e così si è avuta una combinazione di stelle” (Pep Guardiola)

Nei settori giovanili “giocare per vincere” rappresenta la morte della fantasia, dell’estro, del talento. Aggiungiamoci poi le pressioni, le responsabilità di cui è sovraccaricato un adolescente su un campo di calcio; il bombardamento continuo del “ricominciare da dietro per non perdere la palla”, o del “provare la giocata solo quando è strettamente necessario”. Ma che ne sa un ragazzo di 13 anni quando è strettamente necessario? Spesso a quell’età non sa nemmeno qual è il suo ruolo, e anche qui la psicosi di moduli e ruoli ha raggiunto vette inimmaginabili, per cui si abbassa continuamente la soglia anagrafica in cui bisogna avere dei compiti tattici, che scende inesorabilmente come l’età della prima sigaretta.

“I giovani sono costretti ad esprimersi in ambienti isterici, dove c’è pochissima pazienza. E’ colpa del nostro modo di interpretare il calcio. Da decenni siamo subissati di scandali, pochi rispettano le regole e conta solo vincere. A nessuno importa dello spettacolo e pur di ottenere i risultati siamo disposti a tutto” (Arrigo Sacchi)

Che poi, malgrado tutto, il talento non si insegna ma si asseconda. E non è tutta responsabilità delle scuole calcio o dei settori giovanili. Provate ad esempio ad andare in Spagna, senza bisogno di scomodare il Brasile o l’Argentina. Vedrete che nelle spiagge, nelle piccole piazze, succede quello che da noi accadeva trent’anni fa: i ragazzi giocano a pallone. In estate non riuscirete a trovare una singola spiaggia spagnola in cui non si giochi a pallone, usanza sacra che da noi sta lentamente scomparendo.

Sia chiaro, non facciamo l’apologia del calcio incontaminato, di una volta, per un retorico quanto vago nostalgismo, bensì perché giocando per strada si sono formati i migliori talenti, liberi di esprimersi, sollevati dalla pressione e costretti ad adattarsi alle circostanze contingenti (in un vicolo o in un parco il pallone non rimbalza mai nello stesso modo, ma ogni volta lo si deve saper controllare).

E allora facciamo tutti un passo indietro e ripartiamo dalle basi. Lanciamo qui una proposta rivoluzionaria, che gli addetti al settore avranno il piacere di sbeffeggiare ma noi abbiamo il dovere di proporre. Aboliamo le promozioni e le retrocessioni fino ad una certa età; o comunque troviamo il modo per cui la vittoria non diventi un assillo costante e l’obiettivo primo.

Basta con dirigenti accattoni, allenatori stressati, viscidi procuratori che strisciano come serpenti fin dalle scuole calcio, che poi tanto su venti ragazzini uno buono – e redditizio – magari lo trovano, mentre gli altri diciannove li avranno sedotti e abbandonati. Lavoriamo sui ragazzi con pazienza, riportiamo questo sport alla passione e ridiamo a ciascuno i suoi tempi: agli allenatori di insegnare calcio a medio-lungo termine, ai ragazzi di apprendere senza pressioni o responsabilità eccessive e alle piccole società di lavorare sul merito, che saranno premiate se sapranno piazzare ad alti livelli i ragazzi su cui avranno investito tempo, impegno ed energie.

«È inutile prendersi in giro: i livelli sono calati proprio per questo motivo, la qualità tecnica è diventata secondaria. La forza fisica, che magari caratterizza dei ragazzini più sviluppati, poi sparisce e si adegua a quella degli altri. Dobbiamo intendere il settore giovanile come una fucina dove costruire i talenti del futuro, come si fa in Spagna o in altri Paesi. Se si ha un ragazzo gracile dotato di una grandissima tecnica, non si può scartarlo e privilegiarne uno più sviluppato: viceversa bisogna aspettarlo. Il calcio italiano è arrivato al limite… Che senso ha scegliere 3/4 ragazzi di colore, che palesemente non hanno l’età dichiarata, per vincere un torneo giovanile? Dobbiamo farci tutti un esame di coscienza […]. Da noi già a livello di pulcini bisogna vincere. Conta quello e basta» (Marco Barollo, allenatore ed ex calciatore, intervista rilasciata a Calciomercato.com)

Infine un appello, dal cuore, a tanti genitori: noi vi comprendiamo. Sui vostri figli riversate tutte le vostre frustrazioni, ma vi capiamo. Uno su mille ce la fa e allora perché non vostro figlio, è tanto bravo e poi dai… è vostro figlio, è il migliore. Forse se lo spingete un po’ coronerà il vostr.., scusate, il suo sogno! E allora portatelo nel più noto settore giovanile, che lì spesso in tribuna ci va il dirigente X o il procuratore Y… in fondo nella società sotto casa quello bravo non lo noteranno mai (siete poi sicuri di questo? tutto ci insegna che non è così, ma lasciamo perdere). Magari si divertirà un po’ di meno, ma se si vuole arrivare si devono fare dei sacrifici.

Poco importa se l’allenatore al campo vicino casa allena per pura passione, se preferisce lavorare con i ragazzi anziché tornare dalla famiglia a tarda sera, se è disperatamente innamorato del pallone. La Lazio è pur sempre la Lazio, lì ci sono i professionisti migliori e gira la gente giusta: è il palcoscenico perfetto per vostro figlio. E allora ogni volta portatelo all’allenamento, macinate chilometri, incastonatevi nel traffico, suonate il clacson. Consumate benzina, soldi, tempo, energie. Parcheggiate, e aspettate al bar. Nel frattempo parlate con qualcuno, bloccate l’allenatore fuori dal campo, prendete contatti, sentite un procuratore: state inseguendo il suo sogno, dovete fare sacrifici.

Ma vi voglio fare una domanda. Dando per scontato che vostro figlio possa effettivamente arrivare, con lui ci avete mai parlato? In profondità, non superficialmente. Siete sicuri che questo sia il suo sogno, o che lo sia sempre stato? Sì insomma che non sia invece la vostra aspirazione, quella che gli avete incollato addosso anni fa, quando avete visto che aveva delle “doti”… in fondo a tutti i ragazzi piace giocare a pallone, dovrebbe essere un ribelle nel sangue, vostro figlio, per mandarvi al diavolo a dodici anni. E poi, siete certi di poter sfruttare il sistema e di non essere invece gli utili idioti che contribuiscono ad alimentarlo, quel sistema marcio?

E allora fate un passo indietro: siate rivoluzionari nel vostro piccolo. Smettetela di riversare i sogni infranti sui vostri figli, e scordatevi di quei settori giovanili “noti” in cui dovranno dividere lo spogliatoio con altri trenta ragazzini indottrinati. Dimenticatevi gli allenatori con la bava alla bocca, costretti a vincere; e tenetevi lontano dai procuratori, dagli agenti, dai dirigenti, e da tutto quel mondo di mezzo che popola il calcio giovanile.

Rinunciate alla borsa della Roma e fate crescere vostro figlio nella società del quartiere, con un mister che ne prenda a cuore la crescita in un ambiente che, se siete fortunati, sarà ancora fondato sulla passione. Vedrete che il ragazzo migliorerà più sotto casa che nella società “importante”: sembra strano, ma è così. E se poi sarà bravo veramente, state tranquilli che qualcuno ne parlerà, qualcun’altro lo noterà, e nel frattempo vi sarete risparmiati centinaia di ore di traffico, migliaia di euro di benzina, e soprattutto non avrete fatto sacrifici inutili, anzi dannosi. Per oggi la messa è finita, potete andare in pace. E già che ci siete, non dimenticatevi che nell’oratorio c’è quasi sempre un campo di calcio. Si capisce, sempre che abbiate tempo.