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Questa è la sezione dove pubblichiamo gli articoli scritti dai nostri dirigenti, soci, genitori e dai nostri bambini. In questi articoli vogliamo trasmettere la nostra filosofia, le nostre critiche al mondo del calcio giovanile, le nostre esperienze, le nostre sensazioni, i nostri sogni e il nostro entusiasmo!

Alle Radici del Male

Articolo di Andrea Antonioli
del 05 febbraio 2019 alle 15:47

Qui sotto Link all’articolo originale.

https://www.rivistacontrasti.it/alle-radici-del-male-calcio-giovanile/

Il calcio giovanile è un sistema oligarchico fondato sul business e sull’ignoranza.

Noi viviamo in un’implicita quanto errata pretesa, che i problemi si possano risolvere senza interrogarsi sulle cause. A volte non vogliamo farlo, spesso non ne siamo in grado, resta il fatto che quasi sempre riusciamo addirittura a confondere l’effetto con la causa. Il mondo del calcio è profondamente malato, questo lo sappiamo, sempre che con “calcio” intendiamo la stessa cosa di una trentina d’anni fa; ma anche se parlassimo di qualcosa di diverso, il quadro sarebbe comunque desolante. Attenzione, non ci riferiamo qui agli esiti nefasti della globalizzazione pallonara o ai super sceicchi, né allo sport come show o alla ammorbante retorica che lo accompagna: questi aspetti li abbiamo più volte denunciati, ma oggi dobbiamo fare un passo indietro.

Partiamo allora dall’inizio, dal modo in cui si forma un calciatore, e nel farlo saltiamo per esigenza la fase della scuola calcio – malgrado si potrebbe aprire anche qui una parentesi, ma questa è un’altra storia. All’età di 13 anni il ragazzo entra “finalmente” nell’ambito agonistico. Molti di voi sapranno come funziona: a quest’età si è ormai under 14, il primo anno dei giovanissimi tanto per intenderci; poi si diventa allievi fino ad essere juniores, ma cosa accomuna tutte queste tappe? Le categorie: provinciali, regionali, élite (per quest’ultima va fatto un discorso a parte). E qui iniziano i problemi veri e propri.

Quella del calcio agonistico giovanile, infatti, è una macchina perversa fondata sul business, con dinamiche ben più dannose – paradossalmente – di quelle professionistiche. Qui non solo il sistema è costruito in modo tale che la priorità sia il lucro, ma come se non bastasse ciò si verifica a scapito della qualità e della crescita, tanto dei ragazzi quanto del movimento in generale.

Accennavamo alle categorie, che storicamente sono sempre state due, i regionali e i provinciali (tralasciando i nazionali, a cui possono partecipare solo le società professionistiche); successivamente è stato creato – e poi “liberalizzato”- l’èlite, il campionato di maggior livello che nasce come un’estensione dei regionali (anche se non su tutto il territorio nazionale), e diviene dunque il più ambito: questo rientra in una deriva che ci porta direttamente al cuore del problema. L’obiettivo, infatti, diventa fin dai 13 anni mantenere o migliorare la categoria. Sacrosanto, direte voi: il problema è come, e perché.

Avendo a casa l’astro nascente del calcio italiano, o anche solamente un possibile professionista, dove lo si porta? Semplice, nelle categorie migliori e nelle società più note.

Partiamo dal presupposto secondo cui il calcio giovanile si inscrive in un quadro di enorme ignoranza generalizzata, e in quello che rappresenta il vero male di tanti ragazzi, ovvero i genitori convinti che il proprio figlio sia il nuovo Nesta, Pirlo, Del Piero. Questa è la premessa fondamentale, perché tutte le grane, banalmente, derivano da qui. Avendo a casa l’astro nascente del calcio italiano, o anche solamente un possibile professionista, dove lo si porta? Semplice, nelle categorie migliori e nelle società più note che, come tali, partecipano a campionati di prima fascia frequentati da osservatori, agenti, giornalisti etc.

Poco importa che il ragazzo sia il trentaduesimo nelle gerarchie, o che per portarlo agli allenamenti si debbano fare quaranta chilometri e un’ora di traffico sul raccordo anulare: l’importante è che abbia il palcoscenico – e la borsa – della Roma, della Lazio, della Vigor Perconti, del Tor Tre Teste. Forse così l’osservatore o l’agente di turno lo noterà, e tutti gli sforzi saranno ripagati (quando i maiali voleranno, come dicono gli inglesi).

Dal canto loro le società, ben consapevoli del meccanismo, sapendo che nella categoria A si ha il triplo di ragazzi iscritti rispetto alla categoria B, e che la stessa cosa avviene per la B rispetto alla C, tentano in ogni modo di mantenere o migliorare la categoria stessa. La ricompensa non è più il cammino, come direbbe Tabarez, il modo in cui migliorano i singoli ragazzi e la squadra, bensì materialmente è la vittoria.

Ed eccoci al punto nodale: come si ottiene la vittoria, soprattutto a 13-14-15 anni? Qual è il modo più veloce e più diretto per giungere al traguardo? Sviluppare un gioco con meccanismi consolidati, lavorare singolarmente sul ragazzo e globalmente sulla squadra, oppure ricorrere al fisico, al ragazzo più grosso degli altri, al sistema più redditizio nel breve termine?

“Il successo non è fatto solo dai risultati, ma anche dalle difficoltà che si superano per ottenerli, dalla lotta permanente e dallo spirito con cui si affrontano le sfide. Il cammino è la ricompensa.” (Oscar Washington Tabarez, un vero maestro di calcio)

Si giunge così al paradosso per cui un allenatore di una nota e rispettata società romana, al “suo” gruppo di sedicenni, può assicurare senza vergogna che «la cosa più importante sono le palle inattive» (testimonianza diretta). Si arriva così al punto in cui si reclutano giocatori che danno 20 centimetri a compagni ed avversari, spesso prelevati per vie discutibili, che risultano dominanti e vincono le partite da soli. Nell’età più importante per la crescita dei ragazzi non si lavora più su di loro, con i dovuti tempi e la necessaria pazienza, ma si pretende subito il bottino grosso passando per la via più breve. Con le parole di Horst Wein,

“Un tecnico che vince tutto con i giovani non ha lavorato per il futuro dei suoi allievi, ma per il proprio”.

Apparentemente sono tutti contenti (tranne i ragazzi, ma spesso neanche lo sanno): le società incassano, i genitori sognano, gli allenatori vincono – in un periodo in cui gli esoneri per mancanza di risultati sono arrivati anche nei settori giovanili, rendiamoci conto – e così il meccanismo si autoalimenta: poi però arriva il professionismo. A questo punto la società che valuta il ragazzo se ne frega di quante partita abbia vinto nelle giovanilie pretende invece un calciatore già formato; come un’azienda che, assumendo un ingegnere appena laureato, si aspetta che questo sappia fare i calcoli e non guarda certo ai voti ottenuti agli esami, così funziona per la squadra professionistica che ora sì, veramente, deve vincere subito e mantenere la categoria.

Il punto sta proprio qui: molti giocatori, anzi molti possibili giocatori, non arrivano pronti al momento del grande salto perché, sostanzialmente, non sono in grado di fare i calcoli. Non sanno dribblare come si richiede a un’ala, marcare come ci si aspetta da un difensore, spesso non sono capaci nemmeno di controllare il pallone come si pretende da un calciatore professionista. E quegli altri, i più grossi, difficilmente si confermeranno ad alti livelli: erano unicamente il cavallo di troia per entrare nelle mura della città, la carne da macello per un sistema fondato sul business e sulla vittoria.

Il caso di Joseph Minala a Roma fece molto discutere: al di là delle infinite polemiche sull’età che arrivarono anche oltreoceano, fu prelevato dalla Vigor Perconti a 16 anni risultando immarcabile e dominante, prima di approdare alla Lazio e finire in una girandola di prestiti in Serie B

Vi siete mai chiesti perché non produciamo più talenti? Perché l’ultimo effettivo talento italiano, Insigne, è cresciuto giocando per strada? Vi siete mai domandati perché abbiamo esterni offensivi che non sanno più smarcare l’uomo? O difensori centrali che non sanno più marcarlo, l’uomo? Semplice: perché non c’è più tempo, e bisogna vincere subito. Cosa succede infatti se il ragazzo a 14 anni tenta il dribbling, si fa rubare il pallone e gli avversari segnano su contropiede? O se il centrocampista tenta uno stop a seguire per cui invece perde il possesso, lasciando sguarnita la difesa?

Questi sono aspetti che come tanti altri si devono allenare, per i quali serve tanta pazienza: quel ragazzo sbaglierà dieci, venti, trenta dribbling prima di imparare come e quando farli; quell’altro controllerà male la palla cento volte prima di imparare a stopparla orientata come Iniesta. Ma vi chiedo, se Iniesta fosse cresciuto in uno dei nostri settori giovanili e non nel Barcellona – in cui fin dagli otto anni ti insegnano a giocare in quel modo, fregandosene bellamente dei risultati -, sarebbe diventato Iniesta?

“Non voglio essere un falso umile, ma non ho inventato niente di questo tiki taka. Non dobbiamo dimenticare che le due volte che abbiamo vinto la Coppa dei Campioni lo abbiamo fatto con 7-8 giocatori del settore giovanile: questi giocatori come Xavi, Iniesta, Puyol, Victor Valdes, sono entrati nell’Accademia del Barcellona quando avevano 8-9-10 anni, sono arrivati in prima squadra e così si è avuta una combinazione di stelle” (Pep Guardiola)

Nei settori giovanili “giocare per vincere” rappresenta la morte della fantasia, dell’estro, del talento. Aggiungiamoci poi le pressioni, le responsabilità di cui è sovraccaricato un adolescente su un campo di calcio; il bombardamento continuo del “ricominciare da dietro per non perdere la palla”, o del “provare la giocata solo quando è strettamente necessario”. Ma che ne sa un ragazzo di 13 anni quando è strettamente necessario? Spesso a quell’età non sa nemmeno qual è il suo ruolo, e anche qui la psicosi di moduli e ruoli ha raggiunto vette inimmaginabili, per cui si abbassa continuamente la soglia anagrafica in cui bisogna avere dei compiti tattici, che scende inesorabilmente come l’età della prima sigaretta.

“I giovani sono costretti ad esprimersi in ambienti isterici, dove c’è pochissima pazienza. E’ colpa del nostro modo di interpretare il calcio. Da decenni siamo subissati di scandali, pochi rispettano le regole e conta solo vincere. A nessuno importa dello spettacolo e pur di ottenere i risultati siamo disposti a tutto” (Arrigo Sacchi)

Che poi, malgrado tutto, il talento non si insegna ma si asseconda. E non è tutta responsabilità delle scuole calcio o dei settori giovanili. Provate ad esempio ad andare in Spagna, senza bisogno di scomodare il Brasile o l’Argentina. Vedrete che nelle spiagge, nelle piccole piazze, succede quello che da noi accadeva trent’anni fa: i ragazzi giocano a pallone. In estate non riuscirete a trovare una singola spiaggia spagnola in cui non si giochi a pallone, usanza sacra che da noi sta lentamente scomparendo.

Sia chiaro, non facciamo l’apologia del calcio incontaminato, di una volta, per un retorico quanto vago nostalgismo, bensì perché giocando per strada si sono formati i migliori talenti, liberi di esprimersi, sollevati dalla pressione e costretti ad adattarsi alle circostanze contingenti (in un vicolo o in un parco il pallone non rimbalza mai nello stesso modo, ma ogni volta lo si deve saper controllare).

E allora facciamo tutti un passo indietro e ripartiamo dalle basi. Lanciamo qui una proposta rivoluzionaria, che gli addetti al settore avranno il piacere di sbeffeggiare ma noi abbiamo il dovere di proporre. Aboliamo le promozioni e le retrocessioni fino ad una certa età; o comunque troviamo il modo per cui la vittoria non diventi un assillo costante e l’obiettivo primo.

Basta con dirigenti accattoni, allenatori stressati, viscidi procuratori che strisciano come serpenti fin dalle scuole calcio, che poi tanto su venti ragazzini uno buono – e redditizio – magari lo trovano, mentre gli altri diciannove li avranno sedotti e abbandonati. Lavoriamo sui ragazzi con pazienza, riportiamo questo sport alla passione e ridiamo a ciascuno i suoi tempi: agli allenatori di insegnare calcio a medio-lungo termine, ai ragazzi di apprendere senza pressioni o responsabilità eccessive e alle piccole società di lavorare sul merito, che saranno premiate se sapranno piazzare ad alti livelli i ragazzi su cui avranno investito tempo, impegno ed energie.

«È inutile prendersi in giro: i livelli sono calati proprio per questo motivo, la qualità tecnica è diventata secondaria. La forza fisica, che magari caratterizza dei ragazzini più sviluppati, poi sparisce e si adegua a quella degli altri. Dobbiamo intendere il settore giovanile come una fucina dove costruire i talenti del futuro, come si fa in Spagna o in altri Paesi. Se si ha un ragazzo gracile dotato di una grandissima tecnica, non si può scartarlo e privilegiarne uno più sviluppato: viceversa bisogna aspettarlo. Il calcio italiano è arrivato al limite… Che senso ha scegliere 3/4 ragazzi di colore, che palesemente non hanno l’età dichiarata, per vincere un torneo giovanile? Dobbiamo farci tutti un esame di coscienza […]. Da noi già a livello di pulcini bisogna vincere. Conta quello e basta» (Marco Barollo, allenatore ed ex calciatore, intervista rilasciata a Calciomercato.com)

Infine un appello, dal cuore, a tanti genitori: noi vi comprendiamo. Sui vostri figli riversate tutte le vostre frustrazioni, ma vi capiamo. Uno su mille ce la fa e allora perché non vostro figlio, è tanto bravo e poi dai… è vostro figlio, è il migliore. Forse se lo spingete un po’ coronerà il vostr.., scusate, il suo sogno! E allora portatelo nel più noto settore giovanile, che lì spesso in tribuna ci va il dirigente X o il procuratore Y… in fondo nella società sotto casa quello bravo non lo noteranno mai (siete poi sicuri di questo? tutto ci insegna che non è così, ma lasciamo perdere). Magari si divertirà un po’ di meno, ma se si vuole arrivare si devono fare dei sacrifici.

Poco importa se l’allenatore al campo vicino casa allena per pura passione, se preferisce lavorare con i ragazzi anziché tornare dalla famiglia a tarda sera, se è disperatamente innamorato del pallone. La Lazio è pur sempre la Lazio, lì ci sono i professionisti migliori e gira la gente giusta: è il palcoscenico perfetto per vostro figlio. E allora ogni volta portatelo all’allenamento, macinate chilometri, incastonatevi nel traffico, suonate il clacson. Consumate benzina, soldi, tempo, energie. Parcheggiate, e aspettate al bar. Nel frattempo parlate con qualcuno, bloccate l’allenatore fuori dal campo, prendete contatti, sentite un procuratore: state inseguendo il suo sogno, dovete fare sacrifici.

Ma vi voglio fare una domanda. Dando per scontato che vostro figlio possa effettivamente arrivare, con lui ci avete mai parlato? In profondità, non superficialmente. Siete sicuri che questo sia il suo sogno, o che lo sia sempre stato? Sì insomma che non sia invece la vostra aspirazione, quella che gli avete incollato addosso anni fa, quando avete visto che aveva delle “doti”… in fondo a tutti i ragazzi piace giocare a pallone, dovrebbe essere un ribelle nel sangue, vostro figlio, per mandarvi al diavolo a dodici anni. E poi, siete certi di poter sfruttare il sistema e di non essere invece gli utili idioti che contribuiscono ad alimentarlo, quel sistema marcio?

E allora fate un passo indietro: siate rivoluzionari nel vostro piccolo. Smettetela di riversare i sogni infranti sui vostri figli, e scordatevi di quei settori giovanili “noti” in cui dovranno dividere lo spogliatoio con altri trenta ragazzini indottrinati. Dimenticatevi gli allenatori con la bava alla bocca, costretti a vincere; e tenetevi lontano dai procuratori, dagli agenti, dai dirigenti, e da tutto quel mondo di mezzo che popola il calcio giovanile.

Rinunciate alla borsa della Roma e fate crescere vostro figlio nella società del quartiere, con un mister che ne prenda a cuore la crescita in un ambiente che, se siete fortunati, sarà ancora fondato sulla passione. Vedrete che il ragazzo migliorerà più sotto casa che nella società “importante”: sembra strano, ma è così. E se poi sarà bravo veramente, state tranquilli che qualcuno ne parlerà, qualcun’altro lo noterà, e nel frattempo vi sarete risparmiati centinaia di ore di traffico, migliaia di euro di benzina, e soprattutto non avrete fatto sacrifici inutili, anzi dannosi. Per oggi la messa è finita, potete andare in pace. E già che ci siete, non dimenticatevi che nell’oratorio c’è quasi sempre un campo di calcio. Si capisce, sempre che abbiate tempo.

il rapporto tra sport e agonismo in età evolutiva

Il dibattito su questo argomento sfocia sempre in queste tre opinioni diverse, su quale delle tre vi identificate?

  1. lo sport deve privarsi della competizione per poter dare spazio alla creatività dei bambini
  2. nello sport non si fanno sconti l’agonismo “prima lo si vive e prima si cresce”
  3. la competizione deve essere “soft” per paura delle conseguenze

L’errore sulle opinioni sopra indicate è che ad averle sono gli adulti, genitori, allenatori, le società, gli arbitri, ecc. ma ancor peggio il fatto che decideranno con le loro opinioni per i più piccoli.

Il desiderio di competere e di gareggiare è presente in tutte le fasce d’età e deriva dalla forte esigenza di misurarsi con gli altri e di verificare le proprie abilità e non da un’ambizione sfrenata di successo.

Infatti, nonostante la vittoria sia un risultato che ogni bambino apprezza, non ha così importanza quanto ne ha per noi adulti. Il suo fine ultimo è il gioco stesso!

Nei campi, non solo di calcio, sempre più vediamo emergere la ricerca della vittoria con ogni mezzo possibile, dove il fine giustifica sempre i mezzi se il fine ultimo è primeggiare. Si tratta di una posizione estrema dell’agonismo, che sfrutta l’aggressività con lo scopo di soddisfare il proprio ego o anche di ledere o raggirare chi sta attorno.

Questo genere di aggressività viene spesso confusa con “giusto” agonismo, ma anche con “scaltrezza”, “furbizia” e “malizia”, andando così a svilire sentimenti come disponibilità, rispetto, e correttezza, perché considerati solo forme di debolezza a vantaggio degli avversari.

E’ bene rivalutare il concetto di agonismo in una direzione più sana ed etica, che si fonda sul divertimento e sulla voglia di fare, sulla lucidità e sulla concentrazione, abilità fondamentali nello sport come nella vita.

La difficoltà sta proprio nel trasferire al giovane sportivo gli strumenti per gestire la propria parte istintuale senza sfogarla, per prendere così le decisioni migliori e perseguire il proprio impegno con grinta e coraggio.

Agonismo e aggressività devono essere convogliate in una direzione di autocontrollo e di espressione sana nello sport, e devono essere insegnati valori importanti come la dedizione e il sacrifico.

Alla base non deve mancare l’educazione all’espressione sana delle emozioni, aiutandoli a canalizzare i loro istinti in una direzione strategica ma funzionale alla loro crescita. L’aggressività diventa così una spinta a vincere, a valorizzarci e a imporci sugli altri ma senza un sentimento violento o ostile di prevaricazione.

Gruppo, Coesione, Appartenenza

Il GRUPPO è l’unione di più persone, le quali comunicano fra di loro in relazione e cooperazione per raggiungere uno scopo comune.

La COESIONE è la resistenza del gruppo alle forze disgreganti, la propensione dei membri a restare insieme, uniti gli uni con gli altri.

Il SENSO DI APPARTENENZA è la dimensione dell’IO e quella del GRUPPO si fondono per costituire un’unica e più grande dimensione quella del NOI.
Nel sentirsi parte di un NOI ogni individuo mette in secondo piano i propri obiettivi egoistici e si dedica, nella cooperazione, nella condivisione e nel mutuo aiuto totale alla squadra.
Il senso d’appartenenza è il collante che non si vede, ma che ognuno nel gruppo sente dentro di sé.

ALLENAMENTO CON PIOGGIA E FREDDO: come minimizzare i rischi e massimizzare i benefici.

“Mister piove, si fa allenamento?”

Tante volte mi hanno fatto questa domanda, e la mia risposta è sempre stata “CERTO!”
Onestamente non ho mai capito il motivo per cui un po’ di pioggia debba condizionare la nostra vita. Mia madre mi ha cresciuto con un forte senso del dovere, guai a chiederle di non andare a scuola perché pioveva, non c’era verso di convincerla. Io in compenso pretendevo di andare a calcio quando pioveva! . A quanto pare nonostante centinaia di allenamenti e partite sotto la pioggia e la neve, sono ancora qui a scrivervi, tra l’altro con una salute invidiabile!
Perché al giorno d’oggi un po’ d’acqua spaventa così tanto? Partiamo dal presupposto che bagnarsi non fa male (altrimenti non dovremmo né lavarci, né farci il bagno d’estate), ciò che fa male è rimanere bagnati, fermi, al freddo, al punto che il calore disperso sia superiore a quello prodotto, abbassando quindi la temperatura corporea. Questa condizione è difficile che si verifichi durante un allenamento, in quanto il movimento aumenta il calore prodotto, che con il giusto abbigliamento sarà trattenuto e non disperso, mantenendo quindi costante la temperatura corporea (escluse le estremità, soprattutto le mani).
Il corpo umano è una macchina perfetta, che si adatta continuamente all’ambiente, potenziandosi. Fare sport sotto la pioggia aiuta a temprare il fisico, a tonificare i muscoli ed a potenziare il sistema immunitario. Tuttavia ci sono dei rischi che non devono essere sottovalutati, ma prontamente contrastati.
Passo a darvi dei suggerimenti frutto della mia esperienza e dei consigli di mio nonno, ex-calciatore e primario del reparto di pneumologia:

VALUTARE LE CONDIZIONI DEL CAMPO: Per non mettere a rischio l’incolumità dei ragazzi, è importante valutare se il campo è praticabile per svolgere l’allenamento o meno. Cercare di utilizzare le zone di campo dove non ci sono pozzanghere e limitare il più possibile l’utilizzo di attrezzatura spigolosa (soprattutto con i bambini), visto che la pioggia forte aumenta il rischio di scivolare e cadere.
RISCALDAMENTO: Se piove forte, evitare di cominciare l’allenamento a freddo, iniziare il riscaldamento al coperto per poi andare in campo già riscaldati. Il riscaldamento deve essere completo, perché con il freddo, pioggia, vento e neve, il rischio di infortuni muscolari aumenta.
ABBIGLIAMENTO: Utilizzare scaldamuscoli e maglie termiche permette di trattenere il calore prodotto dal corpo umano, evitandone la dispersione e mantenendo quindi il corpo più caldo. Con la temperatura che scende sotto lo 0, possono diventare utili scaldacollo (utilizzabili in allenamento, ma vietati in partita), calzamaglie, cappellini (non quando piove, perchè si impregnano d’acqua, meglio il cappuccio di un k-way che è impermeabile) e guanti. Utilizzare un K-way impermeabile è sempre consigliabile nei giorni di pioggia, in modo da ridurre la quantità di acqua che arriva a contatto con i vestiti e quindi con il corpo.
DOCCIA CALDA: A fine allenamento è FONDAMENTALE fare la doccia calda per riportare il corpo alla giusta temperatura. Una semplice doccia rimuove tutti i rischi di raffreddamento, riportando l’organismo alla temperatura ideale, rimuovendo tutte le tossine e praticamente azzerando il rischio di malattie da raffreddamento. Il consiglio dall’esperienza di mio nonno, sia come calciatore che come medico specializzato in pneumologia, è sempre stato questo: puoi giocare anche 90 minuti sotto pioggia, neve e vento, l’importante è che dopo fai una bella doccia calda. TUTTO VERO: ho giocato sotto neve, pioggia, grandine, vento e mai un’influenza dopo!
BUON SENSO: Messo alla fine, ma è sempre il fattore principale: se vediamo che diluvia, ed i bambini non giocano più con piacere, ma soffrono il freddo, finire un po’ prima può essere una buona idea.
Grazie a questi consigli possiamo svolgere tranquillamente l’allenamento sotto la pioggia senza rischiare ripercussioni sulla salute dei ragazzi.
Buon allenamento bagnato a tutti!

By Damiano Berteina

Regole FIGC per lo sport calcio a dimensione di bambino…

Di seguito un estratto di poche e semplici regole della FIGC per il Settore Giovanile Scolastico da condividere e da far conoscere anche al di fuori dell’ambiente calcistico. Sono regole vigenti da un bel po’ di tempo, atte a difendere e a formare i bambini. Il calcio che vediamo in TV non è quello nei campi dove giocano squadre del settore giovanile scolastico.

  1. Tutti i bambini iscritti nella lista di gara devono partecipare alla gara.
    – Gli allenatori sono obbligati a far partecipare tutti in bambini ad almeno uno dei primi due tempi di gioco (su 3 tempi previsti), senza essere sostituiti. Nel terzo tempo è possibile effettuare sostituzioni libere, con l’auspicio che tutti i bambini partecipino ad almeno un tempo e mezzo. Nei primi due tempi non sono previste sostituzioni per i nuovi entrati, pertanto, nel secondo tempo, è possibile effettuare sostituzioni durante il gioco solo tra i bambini che hanno giocato nel primo tempo.
  2. Qualora si raggiunga una differenza di 5 reti tra una squadra e l’altra nel corso del tempo di gioco, la squadra che sta perdendo può inserire un giocatore in più in campo, fino al raggiungimento di un passivo di 3 reti.
    Es. Se una squadra sta perdendo 5 a 0 può inserire un giocatore in campo in più fino al raggiungimento del 5 a 2, questo per evitare di umiliare i bambini facendoli perdere 15 a 0.
  3. All’inizio e alla fine della gara tutti i bambini devono ritrovarsi al centro del campo per salutare il pubblico e salutare gli avversari.
  4. Autoarbitraggio – “Le gare della categoria Piccoli Amici, Primi calci e Pulcini dovranno essere arbitrate con il “metodo dell’autoarbitraggio”.Tale opportunità prevede che la gara venga arbitrata dagli stessi giocatori che disputano la gara, delegando al dirigente-arbitro ed ai tecnici responsabili delle squadre che si confrontano eventuali e particolari interventi di mediazione e supporto.”. “Bisogna sempre ricordare che una partita giocata dalle suddette categorie serve per rinforzare le conoscenze dei bambini sul calcio e sulla regolamentazione del gioco, perché parte di un contesto di apprendimento.”
  5. È previsto l’utilizzo della “GREEN CARD”, il cartellino verde che premia particolari gesti di Fair Play nei confronti del gioco, degli avversari, del pubblico, etc.
  6. Favorire l’organizzazione del “Terzo Tempo Fair Play”, invitando i genitori e le società a condividere delle merende con tutti i bambini che hanno partecipato alla gara (Tè caldo, crostata, ecc.)

IL CALCIO È MOLTO PIÙ DI UNO SPORT

Nel senso che il calcio , specialmente per i maschietti, è spesso il legante che li fa stare insieme in qualunque situazione: dall’intervallo a scuola, ai giardinetti, alla gita domenicale, alla visita ai cuginetti, in spiaggia dove si fanno facilmente nuove amicizie attorno ad un pallone. Non stiamo parlando di calcio come sport agonistico, ma uno sport a portata di tutti, in ogni ambiente, in ogni situazione, per ogni ceto sociale…Insomma senza calcio non è come senza scherma e jugizo, rugby… difficile che in un cortile si organizzi una sfida col fioretto! 🙂

Mister io quando Gioco?

Oggi sono stato ad un bellissimo torneo di calcio della categoria Pulcini. Ero con la mia squadra, con i miei compagni e non vedevo l’ora di giocare, amo il calcio! Ero entusiasta, carico di emozioni e di energia… i miei genitori erano fuori tra il pubblico pronti a fare il tifo per me.

C’erano tre partite da giocare… il mister ci disse che dovevamo vincerle tutte!!!

Giochiamo la prima partita, pareggiamo 1-1 ed io non entro in campo…

Facciamo la seconda partita, vinciamo 1-0… io non ho ancora giocato.

Facciamo la terza e ultima partita… il primo tempo finisce 3 a 0 per noi… io devo ancora entrare in campo. Prima che inizi il secondo tempo chiedo al Mister:

MISTER IO QUANDO GIOCO?

– Non ora… la squadra avversaria è troppo forte per farti giocare… DOBBIAMO VINCERE…

IO NON VOLEVO VINCERE MA SOLO GIOCARE A CALCIO!!!!

Come scegliere “la squadra” di calcio per tuo figlio?

  1. Vai a conoscere la società e la dirigenza e interrogali:
    • non devono avere più di 2 squadre per annata
    • i costi della quota non devono e non possono essere alti (potrebbero essere società di business dove i bambini vengono trattati come numeri e i soldi spesi in “ALTRO” e non investiti sui bambini)
  2. Fai una verifica della struttura e degli impianti:
    • verifica la sicurezza, se sono a norma, fatti mostrare il defibrillatore chiedi se è carico e se ci sono persone preparate in grado di usarlo. La SALUTE del bambino prima di tutto.
  3. Chiedi la filosofia di fondo della società:
    • vincere o far crescere i bambini?
    • NO alle società dove fanno selezione perché trattano i bambini come merci.
  4. Chiedi di conoscere l’allenatore, deve essere un formatore e un educatore: un allenatore che vince tutto con i ragazzi non ha lavorato per il bene dei ragazzi ma per il proprio bene
    • Gli allenatori devono essere preparati, umili e con voglia di imparare e di mettersi in gioco, la società deve avere un piano di formazione obbligatorio per gli stessi. Devono essere pagati perché responsabilizzati e stimolati a migliorare.
  5. Non portare tuo figlio che vuole divertirsi tra amici dove ci sono già titolari e panchinari
  6. Non portare tuo figlio dove i bambini giocano in campo a 7 e la squadra è composta da 20 giocatori (i bambini devono giocare non stare in Tribuna)
  7. Non portare tuo figlio dove dicono “le squadre migliori sono quelle di orfani”. Come per gli allenatori e i bimbi, i genitori vanno educati, informati, responsabilizzati e coinvolti. Sono delle risorse e devono partecipare al piano educativo della società.
  8. Chiedi alla società se organizza almeno un evento legato alla solidarietà dove coinvolgere i bambini e i genitori per dare un’impronta etica.
  9. Non portare tuo figlio in una società dove manca un supporto psicologico, un supporto per bambini, allenatori e famiglie.
    • Meglio se organizzano incontri a tema con le famiglie.
  10. Non portare tuo figlio in una squadra troppo lontana da dove abiti, portalo in squadre del tuo comune o comuni limitrofi, le esigenze famigliari e di tuo figlio sono importanti, non sottovalutarle.In sintesi devi scegliere la squadra che sia davvero a misura di tuo figlio, delle sue esigenze, del suo essere, semplicemente, un bambino

LO SNOB CHE ODIA IL CALCIO

Si parla di calcio, ma in maniera casuale, è lo spunto per, occasionalmente, parlando con amici o ascoltando conoscenti, capita di imbattersi o leggere messaggi su FB di quelli che “a me il calcio fa schifo”. Va ben… farebbe una miglior figura a dire “non guarda, non m’interessa, non mi diverte, non mi dice nulla”. Con quel sentirsi schifato mette in bella mostra un atteggiamento che non riesco neanche più a comprendere, solo a disprezzare malamente. Sei uno snob, e sei talmente tanto snob, che ti piace farlo sapere in giro. E raramente si trova qualcun altro con sufficiente sangue freddo, schiettezza o voglia di ribattere con un: “ma quanto sei sfigato”. Perché sei sempre a criticare il calcio che non va bene, che fa schifo, che è uno sport diseducativo…non hai passioni differenti? Passi il tempo a gridare ai quattro venti quanto ti senta diverso dal resto del mondo. Resto del mondo che è bue, povero, cialtrone, ignorante, massificato, cretino, violento e assolutamente becero.
Cercati uno sport, seguilo, appassionati e non rompere le scatole al prossimo.
Secondo la mia esperienza quelli che proprio odiano il calcio alla fine sono quelli che ci avrebbero voluto giocare e non ne son stati capaci.
Può anche non piacerti ma quando c’è snobismo, svalutazione totale ed odio accanito c’è qualcosa che non và..
Questi tipi accaniti hanno dato due calci ad un pallone, hanno visto che per riuscire a giocare bene ci voleva impegno e quindi per non mettersi in gioco hanno scelto altri sport, condannando il calcio, che vive bene anche senza di loro…La tecnica s’impara ed il fisico si costruisce, è uno sport che si prende parecchie energie e parecchio tempo.
La verità è che si tratta di uno degli sport più belli al mondo e la finale dei mondiali, con o senza Italia, la guardano tutti…
Poi il calciatore pettinato, sbruffone, che simula e tutto il resto rappresenta uno stereotipo, non è vero che i calciatori sono così, ce ne sono solo alcuni.. Altri invece sono veri e propri combattenti che darebbero pan per focaccia anche ad “atleti” di altri sport.
Il fatto è che in questo paese ogni bambino prova la vergogna di non saper giocare a pallone, anche perché nessuno spiega che NESSUNO nasce con i piedi d’oro, il calcio è come gli altri sport.

La tecnica è importante ma alla fine come in tutti gli sport conta il cuore!

A quelli che odiano il calcio: aprite le menti!!! E non rompete le scatole e guardatevi i vostri sport che ritenete “superiori”.

Noi del calcio vi guardiamo con consapevolezza che non c’è superiorità ma solo quello che a uno piace fare.